“Mi chiamo Mazzorana Angiolino classe 1929, nato in quel paese che si chiama Tripoli bel suol d’amore. La mattina del 6 giugno 1940 fummo messi sulla nave Saturnia Trieste. Dovevamo andare in Italia per le vacanze nelle colonie. Ma quello fu un giorno funesto, perché d’allora non misi più piede sul suolo natio». Molti degli altri tornarono, però solo dopo sei o sette anni. Dodicimila bambini imbarcati dalla Libia, tra le fanfare e le bandiere, perché il Regime aveva regalato un mese di festa sulle spiagge e sui monti d’Italia. Quel mese non finì più. Quando sbarcarono, scoppiò la guerra e restarono prigionieri del loro destino. Alcuni tornarono a casa nel 1946 o nel 1947, dopo altri viaggi terribili, spostati da un campo all’altro tra le ceneri e le rovine, fuggendo dalle baracche, passando il mare con la paura. E quando arrivarono, avevano lo stesso stupore di Mario Ferrullo, «nello scoprire il viso di mio padre: è stato meraviglioso. Io sì e no ricordavo la sua fisionomia. E poi è stato il momento più bello perché avevo lasciato la colonia». Molti di loro erano partiti bambini ed erano tornati uomini. La vita gli aveva regalato le vacanze di guerra.
Il regista Alessandro Rossetto ne ha fatto uno splendido documentario, in onda oggi alle 21 su History Channel, raccogliendo decine di testimonianze non solo tra i ragazzi ma anche tra gli istruttori, per raccontare «un viaggio nella memoria di una generazione, inseguendo la traccia di un’infanzia perduta, segnata dall’esperienza traumatica e dolorosa della guerra», ma anche da un abbandono surreale, persino incredibile. Quelle vacanze sotto le bombe avevano davvero un sapore strano, quasi assurdo, che Giovanni Spinelli finisce per rievocare con tenera mestizia: «Ci trattavano da ometti con la divisa. Ci faceva sentire importanti fare la guardia davanti alla colonia con il moschetto. Quando passava un ufficiale ci avvisavano per fare il presentat-arm come soldatini». Anche se poi ricorda che voleva rivedere la mamma e che c’erano delle cose che a lui non piacevano come il formaggino Galbani: «Lo mettevo da parte per portarlo a casa quando sarei tornato da lei». Aveva 10 anni. Rivide la Libia nel novembre del ‘46. Li spostavano da Igea Marina a Ravenna, da Domodossola al Trentino, lungo quella catena di colonie segnate come puntini rossi sulla cartina, svegliandoli nella notte quando venivano giù le bombe. «I bambini della Libia, – dice Grazia Arnese Grimaldi – erano ben 14 mila. Non tutti partirono, perché bisognava non essere oppositori del regime per avere questo premio: Eravamo andati con i nostri genitori a colonizzare il deserto libico. La chiamavano l’armata del lavoro. Mio papà cercava di arare con un solo mulo 33 ettari di terra. Eravamo calabresi, siciliani, veneti, tutti contadini italiani. La terra era arsa e il ghibli danneggiava il lavoro».
Poi era arrivata questa bella notizia: «Tutti i bambini avevano diritto a una vacanza per vedere la patria nativa». Così partirono. Maria Giorlandino dice che «prima della partenza ero giù di morale perché ero piccolina e non volevo andare. Mi avevano detto che era solo per un mese. Sulla nave mi sono fatta la pipì addosso perché ero troppo spaventata. Arrivata in colonia era un trauma dormire da sola: la notte non mi alzavo dalla paura». Scoppia la guerra quando sono a Massa Carrara: «Andavamo con le coperte a dormire nella pineta. Tornavamo al mattino». Alle sorelle Elda e Regina Gava continuavano a dire che la guerra sarebbe finita subito. Invece non finiva mai. E la vita andava avanti così: «La mattina sveglia presto, si faceva la corsa nel cortile, la ginnastica, poi colazione con latte e caffè, pane e marmellata. Dopo si faceva un po’ di marcia, l’alzabandiera, l’ammainabandiera e delle lunghe passeggiate» (Mario Ferrullo).
Nelle colonie, ricorda qualcuno, «c’era la fame. Quando vedevamo dei frutteti c’era l’assalto» (Susigan). E poi c’era una paura strana, non della guerra, ma dell’abbandono: «Alcuni bambini facevano la pipì a letto e la vigilatrice cattiva li menava» (Maria Giorlandino). «Stavamo male, però a quell’età giocavamo e passava tutto. Non avevamo notizie dei genitori, noi mandavamo le foto. Ma senza vedere né mamma né papà era brutto». Solo che dopo un anno «la fisionomia dei genitori era già sfumata. È stata un’esperienza drammatica, però ci ha formato. I guai erano per il mangiare e nel vivere la quotidianità. La severità era enorme. Dovevamo fare le cose senza discutere» (Ferrullo). Qualche volta, come ricorda una delle assistenti, la signora Nedda, il direttore era pure una brutta persona, con pericolose tendenze: «Sui 50, panciuto, viso paonazzo. A noi non ha dato fastidio, ma ho saputo che poi era stato allontanato».
Una volta venne il Führer a trovarli («Era il ’43, ricordo la visita nel piazzale»). Rivivono molti di quei giorni come un tempo perso, come un’ingiustizia, anche se non lo dicono. Maria Giorlandino alla fine è tornata nel ’48, con una barca partita da Siracusa e arrivata a Tripoli: «Ci hanno sparato, ma non ci hanno preso». Al porto c’era la mamma, «ma è stata una cosa fredda perché non la conoscevo più. Ci è rimasta male. È che non me la ricordavo di preciso chi era». Le era mancata tanto, eppure adesso non era felice per lei: «Pensavo, finalmente è tutto finito». La mamma la guardava e piangeva.
P.S. 300 “bimbi libici” Furono anche dislocati all’Hotel Mediterraneé di Sanremo.
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